Paura del giudizio altrui e procrastinazione: i principali ostacoli alla carriera

Ti racconto una storia personale che parte da lontano.

Era il 2014 e avevo ottenuto il lavoro dei miei sogni. Lavoro che ho trovato da sola, mandando un CV e sostenendo ben 6 step di selezione.

Una multinazionale ambita dove la maggior parte delle persone che conoscevo avrebbe fatto carte false (come si suol dire) per entrarci. Eppure, nel giro di qualche mese mi accorsi che quello non era il mio posto.

Avevo idealizzato talmente tanto quell'azienda e il mio ruolo lì da perdere completamente di vista me stessa.

Cos'era la carriera per me fino ad allora?

Lavorare in una grande multinazionale dove poter dimostrare il mio valore. Essere riconosciuta per ciò che facevo e prendermi i meriti che ne conseguivano. Essere riconosciuta di valore per i miei capi, i miei genitori e le persone attorno a me. Mi identificavo fortemente nel "ruolo" e in quello mi riconoscevo.

Cosa successe, quindi? Cosa determinò quella rottura?

All'inizio non lo capii, iniziai solo a stare male. A lavoro facevo fatica. I miei task quotidiani non mi entusiasmavano e facevo fatica a relazionarmi con i miei colleghi. Mi sentivo davvero un pesce fuor d'acqua. Svegliarmi per andare a lavoro era diventato difficile. Parlare di questo malessere era difficile. Ogni volta che ci provavo le persone attorno a me cercavano di spronarmi a cambiare idea o a incoraggiarmi dicendomi "è normale, sei solo all'inzio. Passerà!". Solo che non passava, il disagio aumentava e cresceva la voglia di tornare indietro, tornare a casa. A un certo punto capii che non era quello che volevo. Ma com'era possibile se effettivamente ho sempre seguito quel "sogno"? Iniziai a interrogarmi su ciò che volevo davvero, ma ci è voluto del tempo per arrivare a maturare le consapevolezze di adesso.

Cosa successe, quindi? Cosa determinò quella rottura?

A un certo punto capii che sarebbe stato necessario pormi le giuste domande, per capire come uscire da quell'impasse. Iniziai a chiedermi: Cosa voglio veramente? Cosa mi rende davvero felice? E stranamente, tra le varie risposte non c'era la carriera. Pensare alla "carriera" nei soliti termini stava diventando una visione nauseante. In quel momento avevo bisogno di amici, di famiglia, di calore umano. Cosa che lì facevo fatica a trovare. In un momento di forte crisi è difficile trovare la propria bussola interiore. E io avevo bisogno che la tempesta passassi per rimettermi in sesto e far chiarezza. Quello che volevo era lontano da lì, così decisi, dopo un periodo di stallo di lasciare quel lavoro e tornare in Italia.

Ma ci sono state delle cose che mi hanno impedito di prendere una decisione chiara e spedita. Ora ti dico quali.

Mi sentivo bloccata tra la me che aveva scelto di intraprendere quel percorso e la me che avrebbe voluto andarsene.

Il blocco principale ha un nome preciso: paura del giudizio degli altri. Un ostacolo invisibile, interno. Ho sempre temuto di essere criticata e non accettata dalle persone a me care. Questo è uno dei motivi che mi ha portato tardi, molto tardi a espormi. Essenzialmente avevo paura del giudizio dei miei genitori, che avevano fatto così tanto fino ad allora per aiutarmi a "realizzarmi" professionalmente. Cosa avrebbero potuto pensare di me una volta tornata? Che ero una fallita? Riflettevo questi pensieri sulle persone a me vicine, così accadeva che confrontandomi con qualche collega e qualche amica fidata mi veniva sempre fatto notare che sarei stata "pazza" a lasciare.

Quindi non solo fallita, anche pazza. A un certo punto ho iniziato a dubitare della mia sanità mentale. Questo fu uno dei motivi per i quali intrapresi un percorso di supporto psicologico. Pensavo di essere pazza, che ci fosse qualcosa che non andasse in me come una rotella di un meccanismo che va solo riparato. Non intrapresi quel percorso per cercare di capire chi fosse la vera me, per ascoltare i miei bisogni e affermare me stessa. Ero un pezzo da riparare.

In quell'occasione non riuscii a liberarmi del tutto della paura del giudizio altrui. Lasciai il lavoro perché ne avevo trovato un altro che in quel momento vedevo come corsia preferenziale alla fuga dal mio malessere.

L'altro blocco, non meno importante fu la procrastinazione.

Rinviavo quello che era importante fare. Era importante parlare con la mia capa di allora, con gli HR e con chi mi avrebbe potuto aiutare o quantomeno ascoltare. Ma non lo facevo mai. Di certo questo blocco era legato alla paura del fallimento e si scontrava con l'altra credenza che ha sempre guidato la mia vita: performance, performance. Dovevo dimostrare di essere brava. La più brava. Non c'era spazio a cedimenti di alcun tipo. Il mio compito sarebbe stato quello di entrare a capofitto sui progetti, gestirli in autonomia e arrivare a proporre cose nuove. E poi magari sarebbe arrivata una promozione, uno scatto di crescita, tutte quelle cose che chi vuol far carriera in azienda si aspetta. Io invece tenevo il mio malessere dentro me e intanto facevo una fatica immane ad avanzare lungo la tabella di marcia che avrei voluto. Non stavo performando. Non stavo dimostrando di essere all'altezza del ruolo. Ancora una volta, fallimento.

Questo circolo vizioso stava minando la mia autostima. Ansia, stress, frustrazione aumentavano di giorno in giorno e mi rendevano tutto meno chiaro. Una cosa avrei dovuto fare: mostrare il mio malessere, senza fronzoli e chiedere aiuto. Ho tentennato fino a quando, sull'orlo della disperazione decisi di prendere un volo e tornare a casa, senza dire nulla a nessuno. In quell'occasione parlai con l'azienda ma nel modo peggiore... A distanza, in call, via mail. Non ci fu mai un confronto diretto e di questo me ne pento. Riconosco che oggi non sono la persona di allora. Riconosco che certe scelte non sono rimediabili nella vita e che tutto occupa un posto ben preciso nel nostro intricato puzzle. In quel momento non mi sentivo capace di scegliere. Stavo sperimentando una sorta di paralisi: qualsiasi scelta avessi fatto lo scenario che mi si prospettava non era l'ideale.

Restare avrebbe significato star male in un ambiente non mio.

Andar via avrebbe significato fallire. Pura follia.

Come finì questa storia?

Tornai in Italia dopo che mi offrirono un altro lavoro, in un'altra azienda. Non sapevo come sarebbe stato e i dubbi erano tanti. Ma partivo da qualche certezza in più: avrei avuto la mia famiglia vicina e i miei amici che in quel momento mi furono molto vicini. Avrei aperto un nuovo capitolo di vita e avrei iniziato a vivere (forse) con qualche peso in meno sul cuore. La scelta fatta fu quella giusta: nel nuovo lavoro ben presto riuscii a trovare il mio posto, a mettere in pratica i miei talenti e competenze. Colleghi e capi mi apprezzavano e riuscii anche ad avviare nuovi progetti e ad avere una promozione. Finalmente avevo trovato il mio posto! Rimasi molto tempo in quell'azienda, poi avvennero altre cose che mi portarono a cercare un nuovo lavoro e a cambiare.

Però una cosa capii (anzi, anche più di una)

  1. I blocchi mentali ed emotivi possono paralizzarci. Esserne consapevoli è il primo passo per superarli. Forse non si superano mai del tutto ma è necessario trovare strategie volte a darci nuove energie, nuova linfa vitale. Perché senza quella non siamo in grado di avere una visione chiara e di procedere lungo i nostri obiettivi.
  2. Le persone a cui teniamo e chi ci vuole davvero bene non ci giudica. La paura del giudizio degli altri è più una cosa nostra, un forte blocco interiore giustificato dal fatto che come esseri sociali cerchiamo l'approvazione e il riconoscimento da parte del nostro gruppo. Chi ci ama, però, vuole sono il nostro bene e gli unici artefici della nostra felicità siamo noi stessi.
  3. Procrastinare significa perder tempo. Più passa il tempo, più il malessere aumenta. Certe scelte andrebbero prese nel momento in cui le maturiamo, non serve aspettare. Anzi, molto spesso aspettare, tentennare, non fa altro che aumentare i dubbi, mina l'autostima e perdiamo sempre più fiducia in noi stessi.

Infine, ho capito una cosa molto importante: non esistono strade a senso unico. Non esiste una carriera lineare e basta. Esistiamo noi e dovremmo far di tutto per disegnare la nostra strada, quella sì che è unica.

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